Per molto tempo, nel nostro mondo Occidentale è pesata un’impronta medica che concepiva il neonato, solo e soltanto, come un essere fisiologico, pressoché privo di una vita psichica e comunicativa. Così, l’unico compito da assolvere era quello di curare la sua salute fisica, di proteggerlo dalle intemperie e dalle infezioni, di assicurargli una buona alimentazione, di tenerlo pulito e farlo riposare. Oggi il quadro dei bisogni del neonato si è enormemente complicato, sia per i saperi specialistici che per buona parte del senso comune. Un’enorme mole di ricerche scientifiche ha approfondito e verificato la complessità, l’intensità ma anche la delicatezza della comunicazione che si stabilisce tra il neonato umano e chi se prende cura di lui nel corso delle routine della vita quotidiana, come l’alimentazione, l’addormentamento, il risveglio e il gioco. Si tratta di una comunicazione intenzionale e psicologica, affettiva ed emozionale, che si basa su meccanismi attivi fin dalla nascita, biologici e istintivi.
Il fondamento materiale di questa comunicazione neonatale è costituito dai cosiddetti neuroni specchio, da quell’insieme di strutture nervose della corteccia cerebrale che fanno sì che i comportamenti dell’altro, registrati con la vista, siano sentiti dentro di noi a tal punto da potere essere facilmente replicati, secondo un processo imitativo attivo fin dalla nascita. Il principale focus dell’attenzione è costituito dal volto, la cosa in assoluto più interessante e attraente fin dalle prime ore di vita, con i suoi movimenti facciali strettamente connessi ai suoi vocalizzi. I movimenti del volto, prima ancora di esprimere emozioni ben codificate come la gioia e la tristezza, parlano di un sentire interno primordiale e basilare, qual è quello connesso alle funzioni fisiologiche e al loro vissuto corporeo. Addormentarsi e svegliarsi, agitarsi e calmarsi, assumere cibo, digerire e svuotarsi, sobbalzare ed essere quieti, il sorgere dell’attenzione e il suo svanire; sono questi i movimenti fisiologici originari, che fondano il senso nucleare di esistere ed essere vivi, e che trovano proprio nella fisiognomica del volto il canale espressivo più diretto e immediato.
Nella sua forma primordiale la vita si identifica per gran parte con variazioni del livello di attivazione interno; variazioni che danno luogo a profili di attivazione, in tutto e per tutto analoghi ad un discorso musicale. I movimenti fisiologici, al pari della musica, presentano qualità come la durata, l’intensità e il modo in cui si succedono i singoli elementi del sentire. Questa musica interiore si esteriorizza in maniera naturale attraverso i movimenti del volto e i suoi vocalizzi, e per questa via può passare dal neonato alla madre e, attraverso la madre, ritornare al neonato in maniera amplificata come in una cassa di risonanza.
La capacità della madre di sintonizzarsi con lo stato fisiologico del neonato, di riconoscere e restituire al suo piccolo ciò che egli sente è la prima e basilare forma dell’amore, è ciò che fonda il sentimento di essere accolti e capiti, e quindi quello di essere sicuri nell’esplorazione del mondo. Ma questa capacità di sintonizzazione, per quanto si basi su meccanismi biologici innati, non costituisce affatto un processo che si realizza in maniera automatica, sempre e comunque. Tale capacità presuppone una disponibilità umana che può essere facilmente alterata e interrotta, come di fatto si verifica in un’ampia serie di condizioni che lungo un continuum vanno dalla normalità alla psicopatologia. Due condizioni che tipicamente destrutturano il gioco musicale che può svolgersi tra la madre e il neonato sono costituite da ansia e depressione.
La madre, nella relazione con il suo piccolo, può essere presa dalla paura di non riuscire a trasmettere il proprio calore e a fornire le cure fisiche e affettive necessarie. Questa paura si traduce facilmente in ansia, che a sua volta tende a destrutturare i comportamenti di cura della madre, aumentando così il suo senso di inadeguatezza. La possibilità di entrare in sintonia con il piccolo richiede una condizione d’animo rilassata e sicura, necessaria per porsi in una condizione di ascolto empatico e per rispettare i tempi della comunicazione, tipicamente molto dilatati. L’agitazione può indurre la madre a effettuare interventi comunicativi continui e inappropriati; questo eccesso di intereventi, in termini di sguardi, espressioni mimiche, sorrisi, vocalizzi, carezze e abbracci, sovra-stimola il neonato, che sperimenterà così una condizione di stress, a cui potrà rispondere o con il pianto o con la fuga dello sguardo dalla madre. La risposta negativa del neonato aumenterà a sua volta l’ansia materna secondo un processo circolare che rafforza se stesso, destrutturando la comunicazione empatica tra madre e neonato con livelli di gravità via via crescenti.
Quando il sentimento di inadeguatezza diventa stabile, ecco che allora si trasforma in un senso di impotenza che tende a stagnare in una condizione depressiva. La depressione compromette gravemente quella stessa sensibilità umana che si gioca a pelle relativamente alla possibilità di sentire i profili di attivazione fisiologica del piccolo e di lasciare libera la propria mente e il proprio corpo di partecipare ad essi in maniera empatica. Il neonato manifesta in maniera chiara la capacità di riconoscere la depressione materna, a cui tipicamente risponde, prima, con veri e propri tentativi di riattivare la vitalità della madre, poi, con azioni auto consolatorie centrate sul proprio corpo e con una diminuzione della sua stessa vitalità.
Ansia e depressione possono presentarsi entrambe con livelli di gravità diversi, che lungo un continuum possono costituire uno stato transitorio, come pure possono esser parte di quadri psicopatologici radicati nella persona. Si tratta comunque di mali assai diffusi nel nostro mondo postmoderno; entrambe si connettono ad un senso di crisi del Sé agente, ovvero ad un sentimento di fragilità di fronte alle sfide della vita, com’è quella costituita dalla cura del neonato. Tale cura costituisce di per sé un compito impegnativo e difficile, ma che oggi sembra maggiormente critico, per la condizione di solitudine e di disorientamento in cui spesso viene a trovarsi la madre. È un fatto evidente di come la famiglia nucleare si trovi priva del supporto della famiglia allargata, che le forniva sicurezza non solo in termini materiali ma anche in termini educativi, tramandando e supportando un preciso modo di rapportarsi al neonato. Ancora più problematico è forse il supporto che proviene del mondo culturale, dai saperi specialistici, ostetrici, pediatrici, pedagogici e psicologici, che parlano in maniera differente dei bisogni del neonato e dei mondi “giusti” per rispondervi. Alla fine, si configura un vero e proprio marasma di informazioni del tutto disorientante su come rispondere al bambino piccolo, che lascia libero il campo al senso di incertezza e insicurezza.
È proprio in questo contesto difficile e critico che madri e padri possono avvertire l’esigenza di un supporto psicologico che li aiuti a svolgere la propria funzione genitoriale, a prescindere dalle distorsioni personali e dalle diverse mode del momento, nel pieno rispetto dei bisogni e delle caratteristiche del neonato. Un adeguato sostegno psicologico può essere funzionale proprio a difendere quello spazio di sicurezza e benessere, necessario per gioire del contatto con il proprio piccolo, in maniera calda e naturale.
articolo a cura della dottoressa
Rossella Bloise
Psicologa psicoterapeuta a Firenze
Il mio approccio alle tematiche della sofferenza psichica e del benessere è in accordo con la prospettiva psicoanalitica, che mi ha formato e continua a formarmi come persona e come professionista.
Dott.ssa Rossella Bloise
Psicologa Psicoterapeuta a Firenze
P.I. 06513240488
Iscritta dal 2011 all’Albo degli Psicologi della Regione Toscana n. 6734
Laurea magistrale in psicologia dello sviluppo e dell’educazione
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